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15 maggio 2010 6 15 /05 /maggio /2010 14:02

 

Ci sono testi biblici di non facile comprensione, come i tre che ci sono stati proposti, che diventano più chiari, quando lasciamo che ad illuminarli sia la Parola di Dio nel suo insieme. Seguendo questa strada, potremo comprendere come sia impossibile perdere la salvezza per chi ha davvero creduto, potremo conoscere quale sia il peccato che conduce a morte e perché le parabole di Gesù non erano comprensibili a tutti.

 

 

Scrivo tre testi che alla fine in fondo in fondo riguardano la stessa problematica:

 

Ebrei 10:26 – Un credente che persiste volontariamente nel peccare perde la sua salvezza? (“non rimane alcun sacrificio per i peccati”).

1Giovanni 5:16 – Come può un credente commettere un peccato che non conduca a morte? Di quale morte si parla? Se non conduce a morte perché bisogna pregare in modo che Dio gli dia la vita? Può la nostra preghiera sopperire ad un peccato commesso da un'altra persona? Qual è invece il peccato che conduce a morte? Se dice di non pregare per quel tipo di peccato è sottointeso che possiamo capire quando una persona commette quel tipo di peccato?

Marco 4:11 – Gesù dice le cose in parabole per far in modo che la gente non le capisca? Che significato ha questo versetto?

Simone

 

Ebrei 10:26

 

Caro fratello,

ti ringrazio per la domanda sollevata che ci dà un’occasione ulteriore di aprire la Parola di Dio e cercare quelle risposte e quel conforto divino che si traduce in benedizione per la nostra vita.

 

Può un credente perdere la salvezza che ha ottenuto a motivo di un peccato o di un comportamento volontariamente non conforme alla volontà di Dio?

 

È una domanda che abbiamo sentito più volte echeggiare nel mondo evangelico e sono proprio testi come quello che hai indicato a sollevare dubbi e perplessità.

Ponendo come fondamento inalienabile la Bibbia, che essendo ispirata da Dio (2Ti 3:16) non può cadere in contraddizione, sicuramente avremo una risposta adeguata e convincente.

La lettera agli Ebrei ha, come certo saprai, un carattere particolare perché diretta a dei lettori che, essendo appunto Ebrei, avevano una buona conoscenza dell’Antico Testamento ed erano vissuti e si erano formati nel rispetto del rituale della legge mosaica e nell’osservanza di quelle tradizioni che facevano del popolo ebraico un popolo unico.

Ecco perché l’autore dell’epistola nell’annunciare Cristo si preoccupa di dimostrare che la rivelazione di Dio non si è fermata ai profeti (Eb 1:1, 2) ma continua con il Figlio “che ha costituito erede di tutte le cose, che è lo splendore della sua gloria e l’impronta della sua essenza”.

Egli è superiore agli angeli, (1:4) superiore a Mosè (3:3), superiore ai sacerdoti dell’Antico patto (5:10).

Egli è il nostro grande sommo sacerdote (4:14), “l’autore di una grande salvezza, colui che crea e rende perfetta la fede” ed è su di lui che dobbiamo “fissare lo sguardo” (12:2).

 

L’invito dell’autore è quello di rompere definitivamente con il giudaesimo che illustrava solo “l’ombra delle cose celesti” (8:5) “e dei futuri beni” (10:1): in Cristo ora abbiamo la realtà.

Il dilemma che pervade l’epistola è che molti Giudei pur essendosi convertiti al cristianesimo non avevano completamente rotto con il giudaesimo, altri, nonostante i precisi e ben mirati insegnamenti che l’autore sviluppa sulla necessità di abbracciare la fede in Gesù per la salvezza. Erano dubbiosi (2:1), (3:12) e (4:1), non avendo assimilata la buona notizia per fede (4:2).

 

È a questi ultimi che si rivolge il testo di 10:26.

Il peccato volontario consiste nel persistere in una condizione di incredulità dopo aver ricevuto la conoscenza della verità.

La condizione di costoro è estremamente rischiosa e può diventare terribile e senza appello (9:27) perché considerano “profano”, cioè inutile e ordinario (10:29) il prezioso sangue che Gesù ha versato per il perdono dei nostri peccati. Inoltre disprezzano l’opera dello Spirito Santo della quale sono stati fatti in una certa misura “partecipi” (6:4). Infatti lo Spirito Santo “convince il mondo quanto al peccato, alla giustizia e al giudizio” (Gv 16:8). Ossia vuol convincere della nostra reale condizione di peccatori e ci spinge a riconoscere in Gesù il Salvatore.

Quel peccare “volontariamente” del versetto 26 è un respingere la grazia che ci viene offerta per cui non rimane “alcun sacrificio per i peccati” perché coloro che respingono la grazia “crocifiggono di nuovo, per conto loro, il Figlio di Dio” (Eb 4:6).

Questa è la scelta irreversibile che ci riporta tra coloro che hanno gridato “crocifiggilo, crocifiggilo” (Lu 23:21).

 

Quindi non si tratta di perdere la salvezza ottenuta, ma di respingerla consapevolmente quando questa è presentata chiaramente.

La Bibbia non insegna in alcun punto che la salvezza possa essere perduta, perché non ne siamo noi i custodi ma è nelle mani più sicure (Gv 10:28) e nel luogo più sicuro che possa esistere (Cl 3:3; Ro 8:31-39).

 

Sono inoltre persuaso che la dottrina della perdita della salvezza, oltre che errata, sia tra le più perniciose e nefaste. Il credente deve vivere nella profonda consapevolezza che la questione della sua salvezza è risolta una volta per sempre, altrimenti come potrà stornare l’attenzione da sé stesso per vivere nella libertà e crescere nella conoscenza di Cristo e dedicarsi al servizio della chiesa e portare il Vangelo nel mondo?

La Parola comunque ci avverte a scanso di equivoci e per evitare qualsiasi illusione, attraverso l’apostolo Paolo: “Esaminatevi per vedere se siete nella fede” (2Co 13: 5).

 

 

1 Giovanni 5: 16

 

Effettivamente questo testo non è di facile comprensione e ha dato luogo a più interpretazioni alcune delle quali assolutamente insostenibili, come ad esempio quella avanzata dalla chiesa cattolica che vi trae la base teologica per parlare di peccati veniali e peccati mortali.

 

Il contesto più immediato di questo testo riguarda la preghiera.

I versetti precedenti ci invitano a nutrire fiducia se in preghiera chiediamo ciò che è secondo la volontà di Dio e ad entrare nel pensiero del Signore uniformando la nostra alla sua volontà per crescere ed esperimentare una reale comunione con lui.

Nel versetto 16 si parla di preghiera in relazione al peccato.

Sappiamo che il peccato di un credente (si noti il termine usato di “fratello” all’inizio del testo) provoca un’interruzione della comunione con Dio che può essere ripristinata con il pentimento e la confessione del peccato (Sl 32:3, 5), ma non certo la perdita della salvezza.

 

La morte di cui si parla dunque non è la morte eterna, come la vita di cui si parla non è la vita eterna che il credente già possiede, ma il ristabilimento della comunione.

Certamente la preghiera di un fratello della chiesa può avere un ruolo importante per sollevare qualcuno caduto nel peccato.

Anziché giudicare o prendere le distanze è sicuramente opportuno e gradito a Dio portare il caso in preghiera perché il Signore conceda il ravvedimento e il ristabilimento nella comunione con Dio.

 

La seconda parte del versetto 16 parla anche di un peccato che conduce a morte per il quale non bisogna pregare.

Di quale peccato si tratta?

Vorrei sottoporre la tua attenzione a due diverse interpretazioni che, seppure non vicinissime, sono quelle che a mio parere meglio si adattano al contesto.

Una prima lettura vede nel peccato che conduce a morte non il peccato imperdonabile di chi rifiuta la grazia di Dio, ma un atteggiamento ostinato e impertinente che ha alla base la premeditazione verso una determinata azione malvagia per cui il peccato non conduce a morte eterna ma a morte fisica, come nel caso di Anania e Saffira (At 5:1, 12) o chi partecipa indegnamente alla mensa del Signore (1Co 11:30).

La preghiera di chi si ostina nel male senza ravvedersi non può avere esaudimento.

Vi è una seconda interpretazione, che personalmente mi sento di sostenere, che si riferisce all’Apostasia, ossia il deliberato rifiuto del Signore Gesù e della sua opera dopo aver ricevuto una chiara testimonianza e fatta anche professione di fede senza però aver mai ricevuto salvezza.

La morte in questo caso è eterna.

I motivi per cui credo che questa lettura sia più aderente al contesto sono i seguenti:

 

   Il termine “fratello” usato nella prima parte del versetto 16 per qualificare colui che commette un peccato che non conduce a morte, non necessariamente deve essere trasferito anche nella seconda parte del versetto ove sembra che Giovanni voglia introdurre un concetto diverso.

 

   Il fatto che si parli di “un peccato” al singolare e non di “peccato o peccati” in senso generico induce proprio a pensare al peccato imperdonabile (Mr 3:29) e (Gv 16:8) e inoltre, sapendo che Giovanni scrive la sua epistola contro le correnti gnostiche che tentavano di infiltrarsi nella chiesa, è del tutto verosimile che questi falsi maestri si professassero credenti finendo per negare la divinità di Cristo e la sua opera redentrice.

 

è chiaro che un credente ha la capacità di capire e individuare chi ha voltato le spalle alla verità e abbracciato la menzogna e non può quindi sentirsi libero di pregare per quel peccato.

 

 

Marco 4:11

 

Questo versetto e i due successivi non hanno bisogno di un’interpretazione particolare perché sono chiarissimi.

Effettivamente Gesù parla in parabole affinché (citando Isaia 6:9, 10) “i suoi uditori non discernano non comprendano non si convertano e non siano perdonati”.

Il problema non sta nel capire il senso di queste parole ma piuttosto possiamo chiederci: perché Gesù che ci ama e “vuole che tutti gli uomini siano salvati e vengano alla conoscenza della verità” (1 Ti 2: 4) parla così?

Leggiamo nei vangeli che Gesù usò spesso il metodo parabolico nel suo insegnamento.

Le parabole di Gesù, ispirandosi alla semplicità di vita quotidiana, potevano trasmettere verità spirituali di grande bellezza e profondità e di immediata comprensione.

Il racconto parabolico si incide meglio nella memoria e quindi può essere conservato più a lungo, può essere oggetto di riflessione e può trovare applicazione in diverse circostanza della nostra vita.

Lo scopo è quello di “far conoscere i misteri del regno dei cieli” (Mt 13:11) e di comunicare una conoscenza più profonda ed ampia dei piani di Dio. I discepoli che ascoltavano dovevano sentirsi inclusi e responsabili in quei piani.

 

Ci ricordiamo di come in due occasioni dopo aver narrato ai discepoli una parabola, Gesù si propose come interprete della stessa per fornire una comprensione corretta. “Voi dunque ascoltate cosa significhi la parabola del seminatore” (Mt 13:18) allo stesso modo su richiesta dei discepoli spiegò la parabola delle zizzanie (Mt 13:36).

Avete capito queste cose?” dirà ancora ai discepoli dopo aver narrato altre due parabole (Mt 13:51).

 

Non v’è dubbio però che l’insegnamento parabolico contenga anche il rovescio della medaglia ossia un elemento di giudizio.

Gesù fa differenza fra i discepoli che lo seguono e le folle che dimostravano indifferenza o che lo seguivano con interessi diversi dall’ascolto della Sua parola. “A voi è dato di conoscere i misteri del regno dei cieli, ma a loro non è dato” (Mt 13: 11 e Mr 4:5).

La Parola di Dio non può essere “svenduta” ad un ascoltatore distratto e superficiale, perché essa è preziosa e deve essere “compresa” (Mt 13:23), “accolta” (Mr 4:20) “e ritenuta in un cuore onesto e buono” (Lu 8:15) e richiede obbedienza (Gm 1:22).

La situazione spirituale del popolo è ben descritta in Matteo 13 ai versi 14-15. Vi era un’incapacità di comprendere dovuta alla durezza del loro cuore, all’aver chiuso occhi e orecchi alla verità (Is 6:9, 11).

La parola espressa in parabole costituiva per costoro un ostacolo che li responsabilizzava ulteriormente davanti al Signore evidenziando la loro superficialità.

Nelle questioni spirituali, come ben ci ricorda Gesù stesso, non è prevista la stasi: “Attenti dunque a come ascoltate: perché a chi ha sarà dato e chi non ha anche quello che pensa di avere gli sarà tolto” (Lu 8: 18).

Non c’è quindi nulla d’ingiusto e arbitrario nell’azione di Dio, come potrebbe sembrare.

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